agenzia DIRE

Sono testimonianze dirette, di lavoratori
infortunati e di parenti di vittime del lavoro, quelle che
compongono “Morire di lavoro”, pellicola d'inchiesta di Daniele
Segre, realizzata con il sostegno della Fillea-Cgil, e cronaca di
un viaggio in Italia, da nord a sud, che sottolinea la
drammaticita' del lavoro nei cantieri edili. “Un lavoro infame,
durissimo, in cui l'altissima percentuale di incidenti che si
verificano e' strettamente legata all'altrettanto alta
percentuale di illegalita' presente- spiega il regista -, ma
paradossalmente anche un lavoro di cui la maggior parte degli
operai intervistati si e' dichiarata fiera, nella convinzione che
costruire edifici significhi fare qualcosa per il bene comune. E
allora il danno che si apporta a queste persone se le si mette in
condizione di lavorare male o di non poterlo piu' fare -nel
migliore dei casi, ossia quello in cui da un incidente si rimanga
'solo' infortunati- e', oltre che fisico ed economico, anche
psicologico”.
Cio' che Segre tiene a mettere in evidenza, e che emerge
chiaramente dalle parole degli intervistati nel suo film, e'
quanto la mancanza di rispetto del lavoro e della vita dei
lavoratori da parte di chi li ingaggia faccia “morire di lavoro”
anche mentre di lavoro si vive -o si cerca faticosamente di
farlo-, e questo perche' la considerazione che molti “padroni”
hanno dei loro operai e' pari a quella di una merce. Una merce il
cui compito e' quello di fare il piu' possibile nel minor tempo e
col minor costo possibili. “In queste condizioni l'incidente,
l'infortunio e la morte sul lavoro sono solo la conseguenza
ultima e altamente probabile di un processo vergognoso che
riguarda tutti i lavoratori, e di cui i media non parlano fino a
che non si verifica la tragedia, l'evento sensazionale che fa
notizia. In quel caso esplodono le opere sugli incidenti, che
fanno leva sull'emozione del momento. Ma questo tipo di
operazioni non producono cultura: il problema si affronta
realmente solo se si e' disposti a ragionare sulla condizione
quotidiana dei lavoratori, sui loro pensieri, le loro paure, la
loro dignita' negata”.
Difficile pensarla diversamente quando un documento importante
come il suo, che sta ricevendo un'accoglienza trionfale in
moltissime scuole, associazioni, diocesi, enti, sindacati e altre
piazze della societa' civile che ne hanno richiesto la
proiezione, non ha avuto nessun finanziamento per la produzione
ne' dall'Istituto Luce ne' dalla Rai, a cui non si riesce a
strappare nemmeno una serata sul tema del lavoro e delle morti
bianche, nonostante le ripetute richieste di Segre, che si
dichiara “indignato per la sottrazione della tv pubblica a quello
che dovrebbe essere il proprio compito, e cioe' far maturare e
crescere il Paese”. E nonostante un appello promosso da Articolo
21, secondo cui la Rai dovrebbe trasmettere il film in prima
serata e “farne un vero e proprio manifesto per la prevenzione e
contro la strage quotidiana”.
E a nulla e' valso neanche -almeno finora-
il Premio Anmil 2008 che Segre ha recentemente ricevuto per il
suo documentario, con il quale -motiva la giuria- “ci mostra le
facce e ci fa sentire le voci di chi sopravvive con tanto dolore
e difficolta' alla mancanza di una vera cultura della sicurezza
diffusa e condivisa, che prima ancora di tanti lavoratori uccide
la dignita' di una nazione intera. Inoltre il suo impegno per
promuovere il film in tante scuole italiane permette alla stessa
opera cinematografica di vivere e di essere vista e discussa, ma
soprattutto permette di vivere alla speranza di avere domani
cittadini piu' responsabili della loro e altrui vita, sia sul
lavoro che in ogni ambito della vita”.
E i lavoratori di oggi, quelli che raccontano le loro storie
nel film, come hanno vissuto quest'operazione? “Molti di loro mi
hanno espresso gratitudine per l'impegno di portare alla luce la
loro condizione, altri, soprattutto i parenti delle vittime,
hanno manifestato la speranza che la loro testimonianza possa
servire a fare in modo che cio' che e' successo a loro e ai loro
cari non si ripeta piu'”. “Ma c'e' ancora molto da fare -mette in
guardia Segre- perche' cio' avvenga, soprattutto nel campo
dell'edilizia, dove il 50% degli operai lavora al nero con
stipendi da fame, in alcuni casi disposta a fare piu' di un
lavoro per riuscire a soddisfare le esigenze dei propri figli,
desiderosi di non essere da meno dei loro compagni. In questo
momento, infatti, il bisogno del prestigio sociale prende spesso
il sopravvento sulla capacita' critica, al contrario di quello
che accadeva fino agli anni '80, quando c'era ancora una
coscienza di classe. Ora i lavoratori sono lasciati a se stessi,
non c'e' nessuno che li rappresenta realmente: ne' la politica
ne' il sindacato, purtroppo, sono dei veri punti di riferimento
per loro. Il sindacato edile, poi, e' molto debole, a causa della
mafia che domina questo mercato e ne impedisce l'accesso nei
cantieri”.
“E se i lavoratori sono messi nelle condizioni di dover subire
il ricatto di chi ha il potere del mantenimento del loro posto-
conclude il regista- e' molto facile che non si lamentino se non
vengono forniti loro casco e guanti di sicurezza, come pure che
se gli vengono forniti non li indossino per paura di rallentarsi
nel lavoro, e che di fronte a un incidente aggravato dal fatto
che ne fossero privi non denuncino i loro padroni ma anzi si
rendano magari loro complici sparendo prima dell'arrivo degli
ispettori del lavoro, non chiamando l'ambulanza o tacendo sulla
mancanza di protezioni quando sarebbero servite”.
Insomma, come diceva Caterina Bueno, “viva il coraggio e chi
lo sa portare. Infame societa', facci mangiare”.